CECILIA STRADA: “LA GUERRA FA GIRARE UN MUCCHIO DI SOLDI MA LA PACE NE FAREBBE GIRARE MOLTI DI PIÙ”
Intervista a Cecilia Strada, presidente di Emergency, nella Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione: “Se io ho diritto di sognare, perché il mio coetaneo del Ghana non ha diritto a costruirsi un futuro migliore? Noi italiani su questo sogno abbiamo costruito la storia del nostro Paese”.
ROMA. È la figlia del medico chirurgo Gino Strada e della filantropa, scomparsa nel 2009, Teresa Sarti: i suoi genitori hanno fondato quel capolavoro di solidarietà che è Emergency, organizzazione che cura le vittime della guerra e della povertà in tutto il mondo, e di quella realtà ora è lei la presidente, depositaria di un percorso umanitario che è insieme onore e dolore, commozione e rabbia, rabbia di quelle amare davvero, che se non stai attenta sprofondi anche tu. Attivissima sui social, capace di descrivere gli orrori della guerra e gli errori dei governi ora con sincera empatia ora con spietata freddezza, Cecilia è una che da sempre dice ciò che pensa, e che riesce a farlo scuotendo l’animo e rinnovando lo sguardo ogni volta in sé stessa come in chi l’ascolta. Animata – si percepisce, a pelle – da una sincera passione. L’abbiamo intervistata – lei che i meno fortunati li aiuta “a casa loro” – nella Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, ricorrenza stabilita per ricordare la morte, al largo di Lampedusa, il 3 ottobre 2013, di ben 366 migranti.
Buonasera. Perdoni il disturbo, sarà impegnatissima. “Diamoci del tu”.
Cecilia, quanto può funzionare il discorso dell’ “aiutiamoli a casa loro”?
“Potrebbe funzionare ma non può funzionare per come siamo organizzati oggi. Non c’è modo di aiutare a casa sua chi a casa sua non ci può più stare. Queste persone hanno bisogno di essere accolte, punto. Una notizia inquietante che ho letto in questi giorni è quella relativa a un documento riservato sul summit che ci sarà tra poco in Afghanistan, Paese in cui lavoriamo dal ‘99: nel dossier si parla del rimpatrio di 80mila afgani in cambio di aiuti economici al Paese. Questo non è il modo giusto di aiutare queste persone. Lo dice anche l’Onu: ogni anno si contano più vittime civili dell’anno precedente. Operazioni come questa sono criminali. Per aiutare davvero chi è in difficoltà c’è bisogno di un cambio radicale della politica estera: dobbiamo cominciare a legare quella dei Paesi cosiddetti “civili” al rispetto dei diritti umani, impostando relazioni diplomatiche e rapporti commerciali solo sulla base di questi principi. La leva economica, si sa, muove montagne, dunque legare rapporti commerciali al rispetto dei diritti umani è fondamentale. Questa scelta comporterebbe una vera e propria inversione di rotta: ok, mandiamo pure un aiuto economico in Algeria ma come Stato decidiamo – che so – di non esportare armi verso un Paese instabile. Non possiamo dare soldi che poi vanno sprecati in corruzione e continuare contemporaneamente a guadagnare sul petrolio. Ci sarebbero dei prezzi da pagare, è ovvio. Siamo pronti a questo? Dobbiamo porci seriamente questa domanda, o rimarremo nel regno della retorica”.
Quali sono, secondo te, i grandi temi che l’Europa non sta affrontando?
“Quelli legati all’organizzazione nazionale per l’accoglienza, prima fra tutte la questione dei minori non accompagnati, che secondo l’Onu rappresentano il 15% degli arrivi nel continente. Questi bambini spariscono dai centri di accoglienza, scompaiono più di 5mila minori l’anno, bambini a rischio di sfruttamento e violenze. Che cosa vuol essere l’Europa? L’Europa delle merci o dei diritti?”.
A proposito di vecchio continente e diritti, cosa ne pensi di questa ondata populista?
“In Ungheria il referendum non è passato ma il 95% dei votanti ha dato un’indicazione di un senso inquietante. Certo, sono preoccupata per il populismo, mi preoccupano i movimenti di estrema destra, ed è anche questo uno degli impegni che ogni Governo si dovrebbe prendere: controllare quello che viene detto all’interno del proprio discorso pubblico. Quando i politici convincono le persone – in questo momento in difficoltà per vari motivi, e quindi più fragili – che se stanno male la colpa è di qualche disgraziato che è arrivato ieri a Lampedusa o in Ungheria, stanno mettendo le basi per una guerra tra poveri. Il populismo ha un calcolo politico”.
Quanti soldi fanno girare intolleranza e guerre?
“La guerra fa girare un mucchio di soldi ma la pace potrebbe farne girare molti di più. La pace è molto più produttiva, ci sono studi che mostrano come la stessa cifra investita nel settore militare o civile produca più soldi nel settore civile. La pace è un prerequisito per il futuro economico di ogni Paese. Costruire diritti costa meno che costruire una bomba ed è un investimento. L’altro giorno abbiamo calcolato quanto abbiamo speso dal 1999 ad oggi in Afghanistan: 80 milioni di euro. Con quei soldi abbiamo costruito tre centri chirurgici, un centro di maternità, 40 posti di primo soccorso, e abbiamo dato lavoro a più di 1000 persone e curato 4 milioni di afgani. L’Italia, nei momenti più impegnativi della sua missione in Afghanistan, ha speso 2 milioni di euro al giorno per la guerra. 5 miliardi in 10 anni. I nostri 80 milioni corrispondono, in pratica, al costo di un mese e mezzo di guerra, e con quei soldi abbiamo curato milioni di persone e soprattutto dato lavoro, salari, reintegrato disabili. La produzione di diritti è un investimento anche economico. Se avessimo avuto a disposizione il budget che l’Italia ha speso per la guerra, chissà quali e quanti risultati avremmo raggiunto”.
Quanto è stretto il legame tra guerre e migrazioni?
“Molto. Le vittime della guerra si accollano il rischio della morte per scampare alla morte certa. Quest’estate, in Afghanistan, ricordavo con i miei collaboratori lo sfortunato caso di una donna incinta all’ottavo mese colpita da una pallottola all’addome. Il bambino, è brutto dirlo, ma ha salvato la madre. Qualcuno, mentre ne parlavamo, ha osservato: “Ma non lo sanno che rischiano la vita?”. La risposta è nella foto di quella donna: quando vivi in un Paese dove tuo figlio può essere una vittima di guerra prima ancora di nascere, quando esci la mattina e saluti i familiari come se non dovessi vederli mai più, qualsiasi cosa è meglio di tutto questo. E poi, non dimentichiamocelo mai, c’è anche chi fugge unicamente per inseguire un sogno. C’è anche chi vuole una vita migliore e basta. Se io, Cecilia Strada, nata a Milano nel ‘79, ho diritto a sognare, perché il mio coetaneo del Ghana non ha diritto a costruirsi un futuro migliore? Noi italiani, del resto, su questo sogno abbiamo costruito la storia del nostro Paese”.
REPUBBLICA.IT – 03-10-16