“In pista ho visto la luna”

È un pomeriggio afoso a Borgo Mezzanone. Abbiamo finito di mangiare da poco. C’è chi sta bevendo un caffè, chi si appisola, chi chiacchiera e chi sta sistemando il materiale per la scuola di italiano o per la ciclofficina. Tra poco sono quasi le cinque e ci incammineremo chi per il ghetto e chi per la pista, come ieri e come i giorni scorsi. Solo che oggi è il penultimo giorno e, a differenza dell’ultimo, in cui hai la piena consapevolezza che tutto domani sarà diverso e che nella tua valigia per tornare a casa non ci saranno solo vestiti, ma soprattutto storie e sensazioni, oggi che è il penultimo giorno, vuoi aggiungere ancora un po’ di più a quel bagaglio, anche se poi farai fatica a chiuderlo quando sarà il momento di partire. Ma non ti importa. Dopo due settimane non sei ancora sazio. La pista, il ghetto, Borgo, tutto ciò che ti circonda ti è entrato dentro, non sai bene come, ma è lì e hai bisogno di mantenerlo vivo, di nutrirlo. Allo stesso tempo sai anche che poi sarà difficile metabolizzare, pensare, indagare e sviscerare le ragioni di ogni cosa che hai visto, di ogni storia che ti hanno raccontato. Ma anche di questo adesso non ti importa. Oggi è il penultimo giorno e vuoi solo che sia pieno come tutti gli altri.

Sono quasi ormai le cinque ed è ora di andare. Mamadou, Innocent, Rouland, Abdul, Libaan, Adams, Omar e gli altri mi aspettano.

Ci incamminiamo in direzione della pista, lungo una strada che costeggia i campi fino al Cara, con gli ulivi da una parte e il filo spinato dall’altra. E non puoi non pensare. E non puoi non sentirti vuoto e disorientato. Possono davvero delle persone vivere rinchiuse? In container? In mezzo al nulla? In attesa di una risposta? Su una pista, dismessa? Ti sforzi di capire, ma non ci riesci. Ti chiedi in che parte di mondo sei. È davvero questo l’Occidente buono che concede dignità e diritti? No, forse no, eppure siamo in Italia, e i tanti discorsi che facciamo su situazioni che pensiamo lontane da noi, distanti geograficamente, le troviamo poi invece dietro casa.

Ma forse è necessario fare un passo indietro. Che cos’è questa pista? Se dovessi dare una risposta formale e pratica direi che è una pista del vecchio aeroporto militare, ormai dismessa. Nel corso degli anni sono sorti dei moduli abitativi prefabbricati, a cui poi si sono aggiunti dei container. L’insieme di queste strutture è andata a creare un vero e proprio campo informale, adiacente al Cara di Borgo Mezzanone, il centro di accoglienza per richiedenti asilo. Il complesso del Cara e della pista dista qualche chilometro da Borgo Mezzanone ed è immerso quasi nel nulla. Ciò ha fatto sì che gli abitanti della pista si siano organizzati in tutto: hanno un prefabbricato adibito a chiesa, c’è il barbiere, ci sono i bar, un ristorante e un baracchino dei gelati. Cercano giustamente di non farsi mancare l’indispensabile. E questa è la pista per sommi capi.

Se volessi invece dirvi che cos’è realmente la pista vi direi che è un posto in cui si perdono le coordinate spaziali e temporali, in cui le distese di terra, campi e ulivi hanno un impatto visivo che è sostanziale. E la sostanza e la sensazione prevalente è spesso quella del vuoto, del nulla, di un luogo abbandonato. Ma c’è l’altro risvolto della medaglia. Man mano che ti addentri nella pista, cominci a scoprire il saluto, la parola e la vita che scorre. La pista è contraddizione. Credo sia questa la parola che descrive meglio i posti che ho visto. Tutto quello che noi consideriamo normale e necessario in pista non c’è. Però quello che non manca è ciò che le nostre vite quotidiane molto spesso ci portano a trascurare. Ci sono gli altri. C’è l’ascolto. C’è il saluto, anche di chi non ti ha mai visto e non ti conosce. C’è relazione e lo senti davvero.

Sono da poco passate le cinque, non siamo in ritardo. Arriviamo verso la fine della pista, dove abbiamo un spazio sufficientemente grande per sistemare i tavoli e le sedie per la scuola di italiano.

Ognuno di noi comincia a prendere il materiale che gli serve. Fogli e penne. “E mi raccomando alle penne”, grida Arcangelo, “che poi finisce che non ne abbiamo più”.

Oggi però è un pomeriggio strano. I ragazzi a cui faccio lezione non sono ancora arrivati. Saranno in ritardo, mi dico. Nel frattempo chiacchiero con gli altri. C’è Giulio accanto a me. Si è appropriato della lavagna e del pennarello blu. Ha studiato l’arabo e allora comincia a riempire la lavagna di parole incomprensibili sia per me sia per gli altri. Poi Giulio mi chiede una cosa che mi piace davvero tanto, lì per lì mi spiazza e non so cosa rispondere. E allora fa lui. Mi prende la mano e con il pennarello blu scrive qualcosa in arabo. Mi scrive “ho visto la luna”. Sorrido e in lontananza vedo arrivare Libaan con il suo quaderno verde sotto il braccio. È alto e snello. Ha due grandi occhi neri,  lineamenti forti, ma delicati per la sua giovane età. Sono contenta che sia arrivato. Mi saluta e gli presento Giulio. Gli dico che Giulio conosce l’arabo e il viso di Libaan si illumina, come quando siamo in un posto sperduto, in cui non conosciamo nulla, e all’improvviso troviamo qualcosa di familiare e ci sentiamo confortati. Chiacchierano tra di loro per qualche minuto. Pur non capendo, ascolto, e resto affascinata. Vedo Libaan a suo agio. Mi chiedo se sia per il fatto di poter parlare la sua lingua che Libaan è così sciolto o se sia per Giulio, per la sua vivacità e capacità di coinvolgimento. Forse sono entrambe le cose, ma la seconda è la più importante. L’essere accomodanti con gli altri è una dote di pochi, e Libaan e Giulio hanno trovato subito un’intesa particolare per quei pochi minuti in cui hanno parlato.fede

Poi Libaan mi guarda e mi dice: “Andiamo?” Vuole andare a fare italiano. Non troviamo un posto sui tavoli. Sono tutti occupati. Ma non ne facciamo un problema. Ci sediamo per terra, sull’asfalto caldo e intanto comincia a tirare vento. Gli altri ragazzi non sono arrivati e non arriveranno. Il giorno dopo, l’ultimo, li incontrerò e mi diranno che erano andati alcuni a lavorare e altri a chiedere  per l’ennesima volta qualche informazione in più per i propri documenti.

Io e Libaan intanto siamo pronti per la nostra lezione. Ho un po’ di fotocopie per lui con esercizi e cose nuove da fare. Libaan è molto motivato e ha una sete di conoscenza ammirevole. Nei giorni precedenti, quando ci eravamo conosciuti, mi aveva detto di avere ventidue anni, ma in realtà ne ha solo diciotto. Lo scopro perché Libaan, nel vecchio centro di accoglienza in cui è stato, ha studiato un po’ di italiano e gli hanno rilasciato un certificato che mi mostra orgoglioso. E in quel certificato, oltre al suo nome, c’è la sua data di nascita. 1997. Ma faccio finta di niente. In fondo cosa cambia? Diciotto o ventidue anni è sempre lui, Libaan. Viene dalla Somalia, da Mogadiscio e vuole imparare bene l’italiano. So solo questo. Libaan parla poco di sé. Ogni tanto è capitato che, mentre facevamo lezione, alzava la testa e guardava lontano, rimanendo quasi incantato. Mi chiedevo a cosa pensasse, ma lo lasciavo fare.

Oggi però scopro qualcosa in più su Libaan. E se ci penso adesso devo un grazie a Giulio.

Mentre sfoglio il quaderno verde di Libaan per riprendere le fila dei giorni scorsi, lui osserva la mia mano. Me la prende e guarda la scritta in blu pennarello. Non l’aveva vista prima. La legge. E mi dice: “Qamar, qamar è luna ”. Gli sorrido e gli dico che ha ragione e che l’ho appena imparato da Giulio. I suoi occhi però si velano di tristezza e aggiunge che anche sua mamma si chiama Qamar. E inizia a parlare. Tra inglese e italiano mi racconta qualcosa in più su di lui. Non mi racconta la sua vita intera, anche perché a chi basterebbero un paio di ore per farlo? Libaan è in Italia da quasi sei mesi. È scappato dalla Somalia. Lì ha lasciato la sua mamma Qamar e il suo papà, che gli mancano molto. Mi dice che lo ha fatto perché c’è la guerra. Perché usciva di casa e vedeva solo morti. “Tanti morti, Federica, non era bello e avevo paura” mi dice. Ha attraversato il deserto ed è arrivato in Libia. Là è stato per un periodo in prigione, senza aver fatto nulla. Non aggiunge altro su questo, sorvola, come chi non vuole ricordare. Ma i suoi occhi dicono tutto. È arrivato a Lampedusa in barca. E da lì in Puglia, prima a Cerignola ed ora qui a Foggia. Ha due sorelle Libaan, che mi mostra orgoglioso dalle foto che ha sul telefono. Sono entrambe più grandi di lui. Una è in Australia, con il marito. E l’altra è in Svezia anche lei con il marito e una bambina piccola di circa due anni. Il sogno di Libaan è di raggiungere sua sorella in Svezia e di continuare a studiare. Mi dice che se tutto va bene avrà i documenti verso metà settembre e potrà raggiungerla. Glielo auguro, se lo merita. Non ho fatto domande a Libaan, come non avrei voluto che se ne facessero a me se fossi stata al suo posto, gli ho lasciato dire quello che si sentiva. Fin da subito ho capito che era un ragazzo riservato. Quel pomeriggio l’ultima cosa che Libaan mi ha detto, prima che passasse Mamadou sulla sua bicicletta e mi salutasse mettendo alla prova il mio francese, è stata che nella vita non dobbiamo vergognarci di dire quello che proviamo o abbiamo provato. Non so se è stato un modo per dirmi che era riuscito a parlare un po’ di sé o se volesse dire qualcos’altro. So solo che quella sera, dopo aver salutato Libaan e riordinato il materiale, mi sono incamminata sulla pista verso casa. Ricordo che oltre a tutti gli altri vicino a me c’erano Chiara, Dina e Alex. Si conversava tranquillamente tra di noi, ma la mia testolina intanto continuava a pensare a quel pomeriggio, a quelle poche, ma preziose cose che Libaan mi aveva raccontato. Pensavo anche che la sensazione di vuoto che spesso avevo provato non era altro che il progressivo venir meno di quelle barriere invisibili che siamo tutti bravi a dire di non avere, ma che in piccola parte abbiamo sempre e che costruiscono il nostro modo di vivere e relazionarci. In pista tutto questo non c’era. Lì ci si immerge in quella che è la vera relazione umana. Riscopri il silenzio e la parola. La quiete e il rumore. Il sorriso e il pianto. Ancora una volta riscopri la contraddizione. Allora può darsi che si vada in crisi, capita che si metta in discussione se stessi e le proprie scelte, a cui non si sa bene che direzione dare, capita che ci si senta cambiati. Mentre riflettevo su queste cose mi è tornata  in mente un frase dell’ultimo libro che avevo letto e che mi sembrava calzasse a pennello in quel momento.

In “Castelli di rabbia” Baricco scrive che nella vita accadono cose che sono come domande. Che passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde. Mi piace pensare che sia così. Che le risposte alle tante domande che quelle due settimane hanno generato in me prima o poi arriveranno, senza bisogno di cercarle con tanta fretta adesso.

Chiara ci dice di guardare in là. Oltre gli ulivi c’è una luna arancione, che ha superato la sua metà, su un cielo blu-viola. Sembra quasi finta, come se fosse stata disegnata.

Sorrido e penso che quella sera, in pista, ho proprio visto la luna. Qamar.

Oggi Libaan è in Svezia. Siamo rimasti in contatto e ci sentiamo spesso. È riuscito a raggiungere la sorella. In un primo tempo hanno vissuto insieme nella stessa casa, ma adesso, grazie al sostegno del governo, Libaan vive da solo e studia. È contento. Quando ci siamo salutati mi ha augurato di essere felice nella mia vita. È un augurio che non poteva e non può non essere ricambiato. Io mi auguro che la Svezia, o qualsiasi altra destinazione che Libaan incrocerà nella suo cammino, siano in grado di sciogliergli la rabbia e la delusione che si porta dentro per aver dovuto lasciare la sua terra, la sua famiglia, il suo papà e la sua mamma Qamar.

Federica.