..estratti dal viaggio in Afghanistan di Cecilia Strada
Letture alla Cascina Triulza in occasione della ricorrenza dell’11 settembre, qui il link del video: https://www.facebook.com/Triulzailmondo/videos/1112482828842823/
24 agosto 2016
Sì, c’è stato un attentato a Kabul, un attacco all’Università americana. Credo stiano ancora sparando. Noi siamo in ospedale, in mezz’ora sono arrivati nove feriti.
La guerra è.
Sono arrivate in pronto soccorso altre due studentesse: sono saltate dalla finestra per scappare all’assalto dei talebani alla American University.
La guerra è barricarsi con i banchi per cercare di sopravvivere.
“Sono entrati, siamo scappati”, “Abbiamo provato a mettere i banchi contro la porta, ma sono entrati”, “Sparavano, sono saltato dalla finestra”. I primi racconti dei feriti della American University a Kabul. La colonna sonora è di sirene, elicotteri, lamenti.
Kabul, il giorno dopo. Dall’attacco all’università abbiamo ricoverato 19 pazienti, 5 medicati e dimessi, uno è morto.Tra un paziente e l’altro guardi il giardino e pensi che questo Paese sarebbe il paradiso in terra, se fosse in pace.
26 agosto 2016
“Sono uno studente universitario, sono ricercatore, sono musulmano. Perché i talebani hanno attaccato l’università? Hanno ucciso innocenti. Allah li punirà, ne sono certo”. Rahmatullah ha aiutato diversi studenti a scappare, poi è stato colpito. Tre pallottole. È rimasto per due ore a terra prima di riuscire a strisciare via e, alla fine, trovare aiuto. “Credevo sarei morto, poi ho pensato a mia madre. Eravamo sette fratelli, ha già perso quattro figli. Non poteva perdere anche me. Alla fine ce l’ho fatta”.
La guerra è quando resti a terra due ore con tre pallottole in corpo e pensi alla mamma.
27 agosto 2016
Ore 8, medical meeting. Chi ha fatto la notte passa le consegne dell’ospedale a chi entra, presenta i nuovi ricoverati e aggiorna sui casi critici. Si programma la giornata, per quello che si può programmare, “poi vediamo quel che succede”. Oggi in ospedale ci sono 102 pazienti e 18 letti vuoti. Speriamo che lo restino, vuoti.
28 agosto 2016
A Kabul capita di ricevere in pronto soccorso qualcuno che, nonostante le ferite, chiede per prima cosa “Posso avere un po’ di pane? Un po’ di riso?”. È capitato a tre soldati afghani che abbiamo ricoverato dalla provincia di Ghazni. In pronto soccorso si riempie la cartella e, fra le altre cose, domandi da quanto tempo il ferito è a digiuno. “Tre giorni”. Tre giorni? “Sì, eravamo sotto assedio, non avevamo niente”.
I soldati afghani: tra morti, feriti e diserzioni se ne perdono migliaia al mese; perlopiù son ragazzi che si ritrovano abbandonati a se stessi, senza rimpiazzi, munizioni o cibo, mentre qualcun altro si è venduto i loro rifornimenti. La corruzione è figlia, madre e sorella della guerra. E indovinate a chi finiscono armi e munizioni, quando tornano sul mercato? Sì, ai talebani che contro l’esercito afghano sparano. “Posso avere un po’ di pane?”.La guerra è.
29 agosto 2016
Ieri sera, a casa a Kabul, abbiamo guardato Jung: racconta l’inizio dell’avventura di Emergency in Afghanistan, quindici anni fa. Ne sono cambiate di cose da allora: da un ospedale a tre, dalla fatica per trovare qualsiasi tipo di materiale di costruzione alla terapia intensiva super attrezzata, dal fax satellitare ai telefonini. I pazienti, invece, sono sempre uguali. Bullet, shell, mine injury; pallottole, schegge, mine. Nei film sentiamo uno sparo, coperto dal rumore di un elicottero sopra la nostra testa; nel film un paziente si lamenta, intanto la radio sul tavolino ci informa che sono arrivati nuovi feriti in pronto soccorso. Tutto è cambiato, niente è cambiato. Bullet, shell, mine.La guerra è.
29 agosto 2016
Fra tre minuti apriamo i cancelli: orario di visita, l’Afghanistan entra in ospedale. Da mezz’ora c’erano fuori i carretti dei venditori di banane, mele, bibite per i parenti in arrivo. Fra un po’ parenti e pazienti, quelli che si possono alzare o possono essere trasportati, saranno sull’erba del nostro giardino a chiacchierare. Per i parenti, forse le uniche ore della settimana in cui saranno al sicuro. Lunedì, Kabul.
30 agosto 2016
Cartoline della giornata. Le facce dei neonati nell’incubatrice, i lavori in corso per il nuovo Centro di maternità che sarà splendido. Gli alberi dell’ospedale carichi di frutta. Chiacchierare con un amico di qui – eravamo quasi ragazzini quando questa storia è cominciata. Un ospedale, il primo costruito in Afghanistan, sempre pulito, fiorito, necessario. Un carro armato arrugginito che miagola: qualcuno deve aver pensato che fosse un buon posto per nascondere i suoi cuccioli. Abbracci e strette di mano. Il rumore del fiume. Panjshir.
31 agosto 2016
Ne abbiamo fatti nascere di bambini nella valle del Panjshir… è per loro, per chi deve ancora nascere, per le prossime mamme, per le colleghe afghane che stiamo costruendo il nuovo Centro di maternità. Più spazio, più cura, più lavoro per le donne. Buongiorno!
2 settembre 2016
La paziente era incinta, a termine. “Ferita da proiettile, in and out”. Cino, il chirurgo che l’ha operata, si tocca l’addome in basso a sinistra, il fianco in alto a destra: è lì che la pallottola è entrata, è da lì che è uscita. La guerra è quando muori sparato ancora prima di nascere. O tua madre salta su una mina con te nella pancia. Nemmeno un respiro e già vittime di guerra: e quando viene fuori l’argomento, attorno a un tavolo a Kabul o sotto l’uva del Panjshir, tutti hanno almeno una storia così. C’è chi li ha visti nascere vivi e sani, ed è stata una festa in tutto l’ospedale. Più spesso no, come questo bambino. Guardiamo le foto dell’intervento. Discutiamo brevemente se pubblicarle o no – è l’essenza della guerra, non è altro che questa roba qui, ma decidiamo subito che no. Una è la foto di un bambino perfetto, le braccia e le gambe appena rannicchiate sul telo verde della sala operatoria. Ha tanti capelli scuri. Il proiettile è entrato dal fianco destro e uscito dal torace. “E probabilmente ha salvato la vita a sua madre”, fa Cino. Già. La guerra è.
3 settembre 2016
Qualche giorno fa mi si è avvicinato il padre di una delle ragazze ferite nell’attacco all’Università, ricoverata da noi a Kabul. “Non ti ricordi di me? Ero fisioterapista all’ospedale di Quetta…io mi ricordo di te, avevi l’apparecchio ai denti”. Un piccolo capogiro. Parliamo di…venticinque anni fa? Qualcosa di più? Un’altra vita, prima di Emergency, un altro ospedale, non molto lontano da qui, un’altra guerra, più o meno. La guerra che va, che viene, che torna e si sposta e gira e rigira e ci ritroviamo qui. E a questo padre – dopo tutti i feriti che ha aiutato a rimettere in piedi – adesso tocca aiutare a rimettere in piedi sua figlia. Ci siamo salutati con una grande, forte stretta di mano.
4 settembre 2016
Un anno fa ero a Kabul mentre finivano i lavori del nuovo blocco operatorio – dopo quindici anni e decine di migliaia di interventi maggiori ci siamo regalati tre nuove sale operatorie, sterilizzazione e la nuova terapia intensiva; quest’estate ho visto tutto finito. Come sempre, i lavori sono stati progettati e portati avanti senza interrompere neanche per un’ora l’attività dell’ospedale, non ce lo possiamo permettere. Riguardo le foto e mi emoziono ricordando la passione con cui tutti hanno costruito e ricostruito quest’ospedale. Ma il pensiero che mi dà – sempre, ogni volta che ci penso – la pelle d’oca è il racconto del giorno in cui hanno lasciato le vecchie sale operatorie per iniziare nelle nuove. Il nostro chirurgo Hedayat piangeva in mezzo alla vecchia sala svuotata: “Quante persone abbiamo salvato qui?”. Già, lui e Shukoor e gli altri, chirurghi e strumentisti, tecnici e anestesisti, insieme ai colleghi internazionali…quante persone hanno salvato, qui? Tashakor. Tashakor.La guerra è.
4 settembre 2016
Prima di ripartire da Kabul ho fatto vedere la foto del bambino morto sparato nel grembo di sua madre a Dejan, il coordinatore del nostro programma in Afghanistan. Da lì ci siamo messi a parlare di foto, del senso di pubblicarle e quando, dei bambini morti sulle spiagge, delle “foto simbolo” che ci avrebbero anche un po’ stancato, se alla commozione non segue quasi mai l’azione; poi dei commenti che questi discorsi e queste foto suscitano: “L’anno scorso – dico a Dejan – mi aveva colpito la quantità di commenti tipo ‘Padri snaturati! Mettono i figli sui gommoni sapendo che moriranno, ma come si fa?’”. Lui punta il dito sul mio telefono, con la foto del bambino. “La risposta è quella lì”. Già. La guerra è.
5 settembre 2016
La verità è che il Centro chirurgico di Kabul, dopo quindici anni di questa guerra, ormai lavora al massimo della sua capacità, 120 posti letto, e spesso – quando c’è un po’ di guerra in più rispetto alla guerra di routine – le corsie sono piene e “vai di laundry”: una sala accanto alla lavanderia che abbiamo sistemato per poter accogliere un po’ di “extra beds”, i pazienti più lievi o in via di dimissione. Spazio non ce n’è più, nel perimetro dell’ospedale, non possiamo costruire altro. L’altra sera mi sarei fatta una carezza da sola mentre vaneggiavo “potrei giocare e vincere al superenalotto e fare un’offerta per il terreno qui dietro, o quel palazzo vuoto al di là della strada, poi facciamo un ponticello di collegamento…”. I colleghi a Kabul fanno tantissimo, hanno fatto la differenza per decine di migliaia di esseri umani, però è sempre un dolore sapere che, se solo avessi più spazio, non faresti fatica a riempirlo – basterebbe aprire un altro posto di primo soccorso, i feriti ahimè non mancano. “In realtà c’è una cosa che si può leggermente allargare, la C ward dal lato di qua: ne ricavi sei letti in più e ce n’è bisogno”, fa Dejan. La C ward, storicamente la corsia femminile e pediatrica, adesso ospita solo donne e bambine, i bambini stanno andando nelle corsie maschili, sennò non ci stiamo nei diciassette letti. “Ma le infermiere insistono che sono sedici più uno”, precisa Giorgia, “sedici e un extra bed. Ho fatto notare che se è lì da un anno possiamo anche smettere di considerarlo extra, ma no, sedici più uno”, ridiamo. La guerra è quando i letti extra diventano letti e devi allargare la corsia delle donne e dei bambini.
5 settembre 2016
Due settimane fa, la sera della strage all’American University, a un certo punto è arrivato in pronto soccorso un taxi che non c’entrava niente. L’autista è sceso con una mascherina blu su naso e bocca – non è un buon segno – e ha aperto le portiere dietro. Gli infermieri hanno tirato fuori un bambino, “mine injury”. Quando è successo?, chiedono al padre, “tre giorni fa”, a quattrocento chilometri da qui.
Quando aprono le bende è uno strazio per tutti. L’odore. Lui che dice “casa, casa”. L’odore. “In questi tre giorni è stato trattato da qualche parte, e non da macellai: ho visto due incisioni, erano fatte come si deve” dice il giorno dopo Michelle, il chirurgo ortopedico che l’ha operato. “Forse il padre l’ha fatto dimettere quando gli hanno parlato di amputazione, non voleva arrendersi, ha provato a venire qui”. Pausa. Michelle è molto bella, si tocca appena i capelli lunghi, grigi. “La gamba l’ho amputata. Il braccio, vedremo come va”. La guerra è.
5 settembre 2016
Tutti a dire la scienza di qui, la scienza di là, ma non hanno ancora inventato un modo per trasportare miniaturizzati in valigia i volontari e i donatori di Emergency. Io lo vorrei tanto, lo vorrei forte ogni volta che parto per uno dei nostri ospedali, perché li hanno costruiti loro, con un banchetto/un banchino/un Rid/una maglietta/un po’ delle proprie competenze o quel che si può. E mi spiace, davvero, trovo ingiusto che non possiate tutti vedere, toccare, annusare, ascoltare. Esserci insieme, sarebbe proprio bello.
6 settembre 2016
“Per spiegare come si gestisce questo ospedale, come funziona, non userei mai l’immagine di una piramide: è piuttosto un ingranaggio, o una ruota”, dice Dejan. Una ruota in cui ognuno deve fare la sua parte, nel modo corretto e al momento giusto, e allora l’ospedale funziona. L’ultima cartolina dall’Afghanistan è dedicata a tutti quelli che non avevo ancora nominato, pezzi imprescindibili della ruota dell’ospedale. Chi lava, stira e aggiusta lenzuola, pigiami, divise e teli, chi costruisce e ripara letti, sedie, tavoli, armadi, barelle, chi cura i gas e i biomedicali, chi sistema le ambulanze e chi le guida, e i giardinieri, le decine di uomini e donne che tengono l’ospedale pulito, le guardie, e i cuochi… Un ospedale è fatto del suo personale. Se ognuno fa la sua parte, quello che ne esce è un alto livello di cura per chi ha bisogno. Grazie.
A cura di Marcella e Bianca volontarie di Emergency zona 2 Milano